IMPERIALISMO
INTORNO ALLA QUESTIONE DEI PAESI ARRETRATI E DELL’’IMPERIALISMO
di Giulio Angeli
Le premesse della questione
Cercheremo di affrontare l’argomento partendo da alcune fondamentali considerazioni che vengono generalmente assunte per buone anche in ambiti anarchici:
- i paesi più industrializzati devono il loro alto grado di sviluppo allo sfruttamento delle colonie;
- il colonialismo prima e l’imperialismo poi avrebbero impedito lo sviluppo dei paesi più arretrati ostacolando lo sviluppo di forze produttive indigene.
Rispetto al punto (1)
La tesi sostenuta è controversa: analizzando la realtà economica e sociale dei paesi coloniali si desume chiaramente che alcuni di questi erano assai meno sviluppati di altri che non avevano mai avuto colonie. Infatti nel XIX secolo il grado di sviluppo dell’Olanda, della Spagna e del Portogallo, paesi storicamente coloniali, era notevolmente più arretrato di quello proprio di paesi quali la Svizzera e la Svezia che non avevano colonie. Vi è, poi, il caso di ex colonie divenute potenze economiche quali gli USA e il Canada, e quello di ex colonie che, come l’Australia, hanno avuto un notevole livello di sviluppo. Quindi è ragionevole supporre che sia un errore ritenere, unilateralmente, che l’arretratezza di un determinato paese dipenda dallo sfruttamento subito da parte dell’imperialismo: in molti casi non è vero. Dobbiamo però evitare di leggere la realtà economica e sociale dei paesi più arretrati con lo schema tipico del marxismo più deteriore - “massimo sviluppo dei rapporti di produzione, massimo sviluppo delle forze produttive” - , secondo il quale la “vera rivoluzione” potrà sorgere solo nei paesi più avanzati.
Rispetto al punto 2
Secondo lo schema marxiano le fasi di transizione al capitalismo in Europa si sarebbero basate sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. In Asia e non solo, questa transizione non si sarebbe verificata, e ciò avrebbe impedito sia la costituzione di una classe borghese, sia la realizzazione di una rivoluzione industriale sul modello occidentale. (*)
Ciò comporta che la decadenza di molte delle grandi civiltà asiatiche e africane sarebbe da attribuirsi a cause interne: in generale, è quindi la preesistente decadenza che espone popoli e paesi alla colonizzazione e all’imperialismo.
La questione appare comunque contraddittoria. Si consideri, ad esempio, il problema del “libero scambio” imposto dalle potenze coloniali ai paesi colonizzati: esso, se da una parte distrusse forme economiche ormai ridotte a livello di sussistenza, causò in altri paesi meno depressi vasti processi di deindustrializzazione. In India, per esempio, la fine dei monopoli industriali sancita proprio dal “libero scambio” causò la fine dell’industria tessile indiana, proprio grazie all’afflusso incontrollato dei prodotti tessili provenienti dall’Inghilterra. Ma si potrebbe obiettare che la fine dell’industria tessile indiana fu ampiamente compensata, in termini, di sviluppo, dagli investimenti inglesi in materia di ferrovie, e la cosa non è del tutto peregrina. In generale si può affermare che la penetrazione coloniale e imperialista ha modificato la struttura economica e sociale dei paesi colonizzati accelerando, e in molti casi determinando, la costituzione di borghesie nazionali indigene le quali pur avendo costituito il presupposto per l’affrancamento dall’imperialismo hanno rapidamente preso il potere per sfruttare le rispettive classi subalterne nazionali. D’altronde, da un punto di vista meramente capitalistico, se i paesi più avanzati dovessero il loro elevato modello di sviluppo allo sfruttamento dei paesi più arretrati, per questi ultimi non sussisterebbe nessuna possibilità di emancipazione dato che non potrebbero, in nessun caso, sfruttare paesi più poveri di loro e rimarrebbero paesi dipendenti.
Lo scontro di classe nei paesi arretrati
Non è significativo stabilire la legittimità giuridica e etica di un moto di opposizione all’imperialismo se prima non si affronta la sua dimensione sociale, ed è necessario essere cauti anche in quelle realtà arretrate laddove le lotte assumono dimensioni significative sul piano dei metodi e delle realizzazioni: è questo il caso del Chapas. Queste lotte hanno espresso messaggi che sono rimbalzati soprattutto in occidente, e di questa circolazione ne hanno beneficiato sia i contadini del Chapas che hanno visto circolare le loro esperienze, sia i lavoratori dell’occidente capitalistico poiché sono stati messi di fronte a significativi modelli di lotta di classe in un paese più arretrato del loro; vantaggio ne hanno tratto poi anche i giovani, poiché hanno potuto comprendere che la ribellione allo sfruttamento e alla miseria è possibile in tutto il mondo, anche nelle realtà più arretrate. Ma è anche essenziale forzare facili ottimismi e chiedersi: quali possibilità hanno quelle lotte di generalizzarsi in un sistema come quello messicano, inserito in un contesto capitalistico definito dal ruolo degli USA quale potenza confinante? Nella storia, talvolta, le sconfitte hanno insegnato molto: ma un conto è perdere in virtù di rapporti di forza sfavorevoli e comunque ricomponibili in equilibri vincenti, un altro è essere sconfitti perché si sta declinando, ed è proprio l’inesorabile esposizione al declino che rende fragili e non generalizzabili anche le esperienze di lotta di classe più avanzate sul piano politico ed organizzativo.
Lo sviluppo capitalistico ha creato profonde disuguaglianze tra sistemi di produzione e tra classi. Possiamo affermare che nei paesi più avanzati la rivoluzione borghese ha impresso nuove spinte al processo storico, scomponendo e ricomponendo la realtà, creando nuovi aggregati sociali che sono rapidamente divenuti gli interpreti di una nuova fase che ha visto sorgere ed affermarsi la borghesia come classe egemone e il proletariato come classe subalterna. Nei paesi arretrati non si è assistito a processi analoghi ma alla decadenza, che ha esposto tali paesi ai sanguinosi assalti del colonialismo prima e dall’imperialismo poi. Potrà apparire ingeneroso ma le lotte nei paesi arretrati non hanno alcuna possibilità di generalizzarsi, dato che esse sono destinate per la loro intrinseca debolezza o a scendere a patti con l’imperialismo per essere sconfitte, o a continuare la lotta contro un nemico troppo forte per essere sconfitte ugualmente. Queste lotte non si fermeranno, però, proprio perché l’opposizione all’immiserimento e all’oppressione capitalistica è una caratteristica ineliminabile del conflitto di classe.
Così come ieri era necessario non confondere la decolonizzazione e il ruolo delle borghesie nazionali con la realizzazione delle società del falso socialismo di stato, oggi è essenziale porre lo scontro di classe nei paesi arretrati in relazione ai reali contesti storici, economici e sociali in cui esso si manifesta: ciò per diffondere e difendere queste lotte, e per evitare apologie di ciò che non potrà essere esportato nelle metropoli imperialiste laddove gli assetti di classe sono sconvolti dai processi di ristrutturazione, né tra l’immenso esercito di forza lavoro che preme ai deboli confini dei paesi a capitalismo maturo, né tra il giovane proletariato dei paesi in forte sviluppo, laddove dolorosi processi di industrializzazione spingono masse enormi di contadini poveri verso la produzione industriale e verso la costituzione di un proletariato che inizia a organizzarsi per porre, per intero, la propria questione.
Giulio Angeli
(*) Né Marx né Engels hanno mai sostenuto che la transizione al capitalismo sia stata, o possa essere, lineare e meccanica, né in Europa, né in altre parti del mondo, né in nessuna fase storica. La linea “unilateralista” è da attribuirsi a Stalin per il quale esistevano cinque tipi fondamentali di rapporti di produzione che, enunciati in modo rigido, definiscono lo sviluppo storico. Con simili argomenti Stalin giustifica la struttura sociale dell’URSS e, soprattutto, la linea politica del Komintern nei paesi arretrati fra gli anni ’20 e ’30. |